L’uomo col cappello che quasi non esiste
Ha la maggior parte dei vestiti in valigia. Sempre. Tutto l’anno. Da tanti anni.
Ma i bagagli più importanti restano le sue mani ed un baule usurato, pieno dei suoi cappelli. Ciascuno con una storia, un’ammaccatura, un filo interrotto, un’etichetta sbiadita dagli anni, un nero stanco e consumato che in certi punti cede al grigio.
Tanto anche il bianco è solo un nero chiaro.
E fogli.
Ha fogli anche tra le lenzuola.
Fogli con pentagrammi.
Ecco, quella cosa lì è magica. Quei fogli, una volta riempiti sono musica solida. Che storia!
A rubarne uno, ci si può mettere in tasca della musica appena pensata. Che non è uguale a quella ascoltata e riascoltata. E’ musica appena pensata!
Se qualcuno tira fuori una moneta dal nulla, è un gioco di prestigio, passato l’attimo di stupore, quella è una moneta, manca l’incanto, è solo sorpresa. Ma se l’uomo col cappello tira fuori la musica dai jeans neri della sua anima, allora resti a chiederti, più che come abbia fatto, dove fosse nascosto prima quel suono.
Era dentro di lui. Dentro uno che se ne va in giro come una scatola silenziosa, chiusa ogni giorno da un cappello diverso, scelto con cura, che calzi sui suoi pensieri del momento.
Tutti quei cappelli sono sigilli di uno scrigno che contiene musica. Perciò, anche se se ne sta in silenzio in mezzo ad altra gente, senti musica, come lontana, provenire dalla sua parte, ti incuriosisce e gliela cerchi addosso. Mentre lui, un po’ schivo e un po’ burbero, sa cosa stai facendo, perché quei pochi che lo osservano così, hanno sentito e lui li riconosce.
Riconosce gli occhi, identici a quelli con cui si guarda sotto i lampioni per capire se piove.
La pioggia si cerca sempre lì per avere conferma, quando è sottile e si fa a spilli.
E lui sa cercare. Si circonda di cose che ha trovato tra tante, in posti dove non vengono sistemate come imperdibili e sfavillanti sotto la luce migliore, compiacenti e tronfie di una bellezza assimilata dal contesto, perfette, composte, impeccabili, pulite e nuove, senza ricordi, senza nostalgie. Ha scavato per trovare ogni cosa che ha scelto. L’uomo col cappello ha sempre pensato che le cose più nascoste gli somiglino, perciò le sente, perciò le porta via. Quando c’è stato bisogno, ha spostato tutte quelle davanti in prima fila, protagoniste come le ballerine più brave, per prendere quella in fondo, che sembrava dire “se anche mi lasci qui, io sto bene, ho già visto tante stanze, tante finestre su tante città…” Invece lui, che non lascia mai perdere in questi casi, per guardarla da vicino ha continuato a spostare le altre, ha fatto anche cadere qualcosa, ha chiesto scusa al vecchietto, che non ha battuto ciglio e ha risposto che è normale, che ne ha viste di cadute, ne ha fatte… e di non preoccuparsi, perché lì dentro il pavimento non fa infrangere nulla, è così complice, che negli anni si è fatto cuscino per ogni cosa caduta, per ogni oggetto che un po’ è stato urtato, un po’ si è dato la spinta in un volo con l’esito di un tuffo. Questo anziano parquet, dice, come se la voce filtrasse a mo’ di luce dalle rughe più che dalle labbra, lascia che le cose si ammacchino, che si scheggino, ma non permette che si rompano in due, in quel modo che rende vana una riparazione dopo una carezza. Quel modo che allontana i pezzi per sempre.
Un giorno ha portato a casa un piccolo aereo di ferro e di legno, trovato in un mercatino nelle poche ore di pausa di un tour.
Viaggia tanto per lavoro, ma viaggia di più quando alla scrivania non si accorge che è passata l’ora di pranzo da un bel po’, e quasi pure quella di cena, rincorrendo quell’accordo. E’ un lavoro che richiede totale fiducia nell’esistenza della bellezza nascosta. E la bellezza toglie la fame, sazia, sia quando è lì che si può toccare, ma ancora di più quando sfugge. Quando la cerca, cambia una nota, poi un’altra, sembra sia intento con le dita a spostare granelli di sabbia di una spiaggia intera, due-tre alla volta, per afferrare l’unica briciola che solo lui è convinto sia lì, da qualche parte. L’incredibile è che poi, lui, la trova.
Vive di musica l’uomo del cappello, quanto la musica gli vive dentro.
L’ho visto suonare due volte. Solo la seconda sapevo fosse lui. Era una sera, stava finendo un’estate che chiaramente non voleva finire. Io che di una canzone lascio passare sotto pelle da sempre solo le parole, per la prima volta, mi sono distratta dal testo, ho smesso di aspettare la mia frase preferita di quel pezzo, come faccio ogni volta, e ho guardato la musica uscire dalle mani dell’uomo col cappello. Aveva la postura di chi sta camminando su un filo, forse su sei contemporaneamente, sì, sei fili di una chitarra rossa che contrastava coi vestiti neri.
In quel momento ho capito che c’è qualcosa di più difficile che camminare su un filo, ed è camminare su tanti.
Nessun gesto fatto a contorno per richiamare l’attenzione, per esibizionismo, accompagnava la musica fuori. E le pause delle mani, incollavano gli occhi come se la parte più bella di un racconto stesse per arrivare immediatamente. Non ho mai sentito la sua voce, non sembra affatto uno che parli molto, anzi mette quella soggezione che fa sentire invadenti e ladri di dettagli ad osservarlo. Il buon senso suggerisce di rispettare questa linea gialla, di solito non ci metto mai i piedi sopra. Mai, tranne questa volta. Non ho la confidenza per scavare in quella figura così affascinante, non ho il permesso. Eppure ci ho visto storie e quadri che fino a quel giorno mi giravano dentro e non riuscivano ad uscire dalle mani, restavano a sbattere contro le pareti di pelle, come le ginocchia sotto le lenzuola.
…continua
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